SAN LEOPOLDO MANDIC, IL “PICCOLO” GRANDE CONFESSORE

Alto un metro e 35 centimetri, padre Leopoldo Mandic, uno dei patroni del recente Giubileo della Misericordia, accoglieva tutti con amore nel convento di Santa Croce a Padova. Ecco come lo ricorda chi l’ha conosciuto
«La sera prima di morire, nonostante i tormenti della malattia, padre Leopoldo stava ancora in confessionale ad accogliere i penitenti. Sono stato uno degli ultimi a entrare nella sua cella per confessarmi, come facevo tutte le sere dopo cena».


Parla con molta difficoltà, ma è ancora lucida la memoria di fra Barnaba Gabini. Fratel Barnaba era un giovane novizio quando alla fine degli anni Trenta lo incontrò la prima volta entrando nel convento di Santa Croce a Padova. «Ricordo che si rivolgeva a me chiamandomi toso, cioè ragazzo in dialetto, e che fu lui a incoraggiarmi al momento della mia professione con pochissime parole. Non l’ho mai sentito lamentarsi della malattia che lo stava consumando. Era sempre al confessionale e fuori c’era la fila per confessarsi da lui. Accoglieva tutti con amore, incondizionatamente. Ed era così ben disposto nei confronti di chi chiedeva perdono al Signore, che qualcuno dei confratelli cominciò ad accusarlo di dare troppo facilmente l’assoluzione. Per questo i miei superiori negarono ai seminaristi la possibilità di confessarsi da lui».
La vocazione religiosa
Frequentando l'ambiente dei frati, in occasione delle funzioni religiose e del doposcuola pomeridiano, il piccolo Bogdan manifestò il desiderio di entrare nell'Ordine dei Cappuccini. Per il discernimento della vocazione religiosa, fu accolto nel seminario cappuccino di Udine e poi, diciottenne, il 2 maggio 1884 al noviziato di Bassano del Grappa (Vicenza), dove vestì l'abito francescano, ricevendo il nuovo nome di "fra Leopoldo" e impegnandosi a vivere la regola e lo spirito di san Francesco d'Assisi. Di intelligenza aperta, padre Leopoldo Mandić aveva una buona formazione filosofica e teologica e per tutta la vita continuerà a leggere i padri e i dottori della Chiesa. I primi anni passarono nel silenzio e nel nascondimento del convento di Venezia, addetto al confessionale e agli umili lavori del convento, con un po' di esperienza da questuante di porta in porta. 
L'arrivo a Padova
A Padova, furono anni di intenso studio e dedizione. A differenza di altri docenti, padre Leopoldo - che insegnava Patrologia - si distinse per benevolenza, che qualcuno riteneva eccessiva e in contrasto con la tradizio ne dell'Ordine. Le sue doti di consigliere spirituale erano note da tempo, tanto che, nel giro di qualche anno, divenne confessore ricercato da persone di ogni estrazione sociale, che per incontrarlo arrivavano anche da fuori città. La Grande Guerra e il confino nel Sud d'Italia Fortemente legato alla sua terra d'origine, padre Leopoldo aveva mantenuto la cittadinanza austriaca. 
A lui affluiscono non solo popolani, ma specialmente persone intellettuali e aristocratiche, a lui professori e studenti dell'Università e il clero secolare e regolare". Nell'ottobre del 1923 i superiori religiosi lo trasferirono a Fiume (Rijeka), dopo che il convento era passato alla Provincia Veneta. Ma, soltanto una settimana dopo la sua partenza, il vescovo di Padova, mons. Elia Dalla Costa, interprete della cittadinanza, invitò il Ministro provinciale dei francescani Cappuccini, padre Odorico Rosin da Pordenone, a farlo ritornare. Così, per il Natale di quell'anno padre Leopoldo, obbedendo ai superiori e congedando il sogno di lavorare sul campo per l'unità dei cristiani, era di nuovo a Padova. Da Padova non si allontanerà più per il resto della vita. Qui, spenderà ogni momento del suo ministero sacerdotale nell'ascolto sacramentale delle confessioni e nella direzione spirituale. Negli ultimi mesi del 1940 la sua salute andò sempre più peggiorando. All'inizio di aprile 1942 fu ricoverato all'ospedale: ignorava di avere un tumore all'esofago. Rientrato in convento continuò a confessare, pur in condizioni sempre più precarie. Com'era solito fare, il 29 luglio 1942 confessò senza sosta, trascorrendo poi gran parte della notte in preghiera. All'alba del 30 luglio, nel prepararsi alla santa messa, svenne. Riportato a letto, ricevette il sacramento dell'unzione degli infermi. Pochi minuti dopo, mentre recitava le ultime parole della preghiera Salve Regina, tendendo le mani verso l'alto, spirò. 
Nel l'anno 2020 San Leopoldo Mandić diventa ufficialmente il patrono dei malati di tumore
Si ricorda di lui come un frate piccolo, fragile, con il saio di francescano cappuccino tutto consumato. Ed era una figura sempre più familiare, a Padova e nella provincia, con la con quel suo passo lento, appoggiato al bastone. La sua vita era trascorsa tra le ore passate in confessionale, quelle in preghiera, soprattutto davanti ad una statua della Madonna, la "Parona", come affettuosamente la chiamava lui, in dialetto veneto, che aveva assunto come seconda lingua, per lui che era nato in Montenegro, la patria che mai avrebbe dimenticato. E poi tante, tante ore passate al capezzale di malati gravi. Sapeva cosa volesse dire soffrire, nello spirito e nel corpo. E del resto lui stesso si ammalò di un tumore all' esofago, che lo portò alla morte. Ma quel frate dalla corporatura minuta, con una vocazione alla missione e con il sogno ecumenico di far riconciliare le chiese d' Oriente e di Occidente, scomparso nel 1942 in seguito alla malattia, è diventato uno dei santi più amati dalla gente, e dal suo convento a Padova la fama è cresciuta nel mondo.

CONFESSAVA IN DIALETTO
Padre Giuseppe Ungaro, francescano conventuale del Santo a Padova, di anni ne ha 97, e nella sua vita ha avuto la singolare fortuna di incontrare ben sei tra santi e pontefici: padre Pio, padre Massimiliano Kolbe, papa Luciani, papa Giovanni XXIII, papa Giovanni Paolo II, che furono anche suoi confessori. Incontrò pure padre Leopoldo a Padova. «Veniva ogni mercoledì a confessare i frati al Santo; lo faceva spesso in dialetto per mettere a suo agio chi gli stava davanti. Prima andava a pregare davanti alla tomba di sant’Antonio. Cosa che ripeteva alla fine delle confessioni. Ricordo che per strada talvolta i ragazzini si prendevano gioco di questo religioso bassissimo di statura (solo un metro e 35 centimetri) e la cosa lo faceva un po’ soffrire. Era così umile, poi, che si vergognava di farsi accompagnare al Santo in automobile».

 A proposito della larghezza di cuore e della mansuetudine proverbiale del cappuccino, padre Ungaro, biografo di san Leopoldo, racconta un episodio della vita del giovane Mandic che spiegherebbe l’origine del suo peculiare stile di confessore: «All’età di otto anni fu fatto inginocchiare in mezzo alla chiesa come penitenza da un sacerdote. E promise a se stesso che non si sarebbe mai comportato così, se fosse diventato prete». E ancora: «Il suo modo di confessare assomigliava molto a quello di padre Pio. A volte la sua misericordiosa comprensione veniva scambiata per lassismo, per mano troppo larga. Un giorno accolse un fedele a cui un penitenziere della basilica aveva negato l’assoluzione. Lo mandò perdonato. E incontrandosi, in seguito, con quel frate inflessibile gli motivò la sua scelta differente con una sola frase: “Lei, padre, confessa con la sua coscienza; io con la mia”».
MISERICORDIOSO COME DIO
Un’altra volta ebbe a rispondere: «Io troppo largo? Chi è stato largo? È stato il Signore il primo a esserlo: mica io sono morto per i nostri peccati, ma il Signore. Più largo di così col ladrone e con gli altri come poteva essere?».
Sarà proprio padre Giuseppe a redigere il testo che ricorderà la figura del santo quando il 17 febbraio le sue reliquie passeranno per la basilica di Sant’Antonio, prima del rientro al convento di Santa Croce.

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